Daniela Diletti è bella e dannatamente tosta. La Marchigiana è emblema di divulgazione digitale del sapere artigianale, basato sul rapporto diretto tra le persone, l’impegno e tanta passione.
Tradizione e innovazione sono i suoi ingredienti: la più pura maestria calzaturiera italiana co-creata e rilanciata su Instagram. Un sogno? No, una necessità.
“Dal bisogno nasce la passione: ho vissuto tutti i primi anni della mia vita tra la fabbrica di scarpe di mio papà e la casa dei nonni. I miei erano sempre assorbiti dai drammi della piccola azienda italiana, che produceva 1500 paia a settimana x grandi brand, con 15 dipendenti. Era la classica azienda marchigiana che produceva conto terzi oltre al proprio private label. L’azienda è stata raso al suolo – come tutto il comparto calzaturiero marchigiano – per il costo del lavoro, negli anni 2000 quando le competenze non erano più valori.
Io mi stavo laureando in storia dell’arte (che oggi insegno in università), sognavo di diventare Ministro dei Beni Culturali, finché nel 2008 l’azienda chiude e io a 25 anni, volendo aiutare economicamente i miei, ho iniziato la mia personale esperienza artigiana, ribaltato la mia vita.
La mia storia rappresenta la storia di tantissimi altri a livello generazionale, dove le competenze dei padri si devono passare attraverso gesti, parole, passione perché, se fatto come tradizione vuole, il lavoro artigiano è dura fatica e poco guadagno. O lo fai perché ne sei innamorato o non lo fai. I nostri genitori hanno perso la sfida e hanno cercato di allontanare noi figli dandoci l’opportunità di inventare nuove strade.
Io sono arrivata alla meta che avevo fissato e poi sono tornata indietro. L’ho fatto per semplice amore, per non vedere i miei genitori gettare all’aria anni di sacrifici professionali.
Non è stato affatto semplice: amo le fabbriche abbandonate, l’archeologia industriale ma solo perché sono abbandonate. Amo la morte del sistema industriale perché ha ucciso tanta tradizione e tanta eccellenza. Ma è stato proprio il mio dovermi inserire in un settore che ho sempre odiato che mi ha resa responsabile indicando la strada alternativa ai miei genitori: una responsabilità del 50% continuava a essere la tradizione di mio padre e l’altra sarebbe stata la mia capacità di innovare il sistema. Ho messo da parte le miei aspirazioni accademiche e ripreso in mano studi e competenze marketing e commerciali, legati al fenomeno dei Social che dominavano la scena”.